Capitalismo e Stato possono apparire, ad una visione affrettata, elementi contraddittori, non di rado siamo istintivamente portati ad assegnare al concetto di Stato una valenza “sociale”, di prevalenza dei valori e dei bisogni maggioritari in seno alla società.

Ciò in particolare nell’ambito del concetto fuorviante di “democrazia liberale” .

Se però facciamo una breve riflessione storica sulla funzione REALE del Capitalismo di Stato e della democrazia liberale, vedremo che le cose sono MOLTO più complesse, ma tutto sommato ben inquadrabili purchè in una visione dei fatti sociali libera da pregiudizi ed attenta alla realtà dei fatti più che alla terminologia corrente.

In Italia in particolare abbiamo molto da apprendere dalle vicende Capitalismo di Stato prima nel ventennio fascista, poi nell’era democristiana-craxiana, poi ancora in quella berlusconiana.

Tentiamo di capire cosa fu: già dal suo nascere l’IRI nel ’33 ebbe, come peraltro decine di altri colossi produttivo-finanziari analoghi nel mondo,un ruolo univoco: togliere le castagne dal fuoco a tutta una serie di imprese in gravissima crisi dopo il crollo del ’29, rilevandone (pagandoli profumatamente) i settori più in difficoltà grazie ad ingentissimi capitali reperiti dalla fiscalità generale e dall’indebitamento statale.

Si veniva in tal modo a creare un blocco produttivo e finanziario omogeneo, alle dirette dipendenze dal blocco politico-militare, pronto ad entrare in funzione in ogni luogo ed in ogni momento in cui il capitale privato ne avesse bisogno.

Uno strumento, in altri termini, con il quale le caste del regime potevano intervenire prontamente, senza fastidiosi passaggi legislativi, a sostegno dei loro membri in difficoltà.

Un esempio clamoroso e innegabile di quanto detto lo vedremo dopo, nel dopoguerra, con la costituzione dell’ ENEL.

Ma esiste un secondo aspetto, non meno importante a nostro avviso del primo, che viene spesso sottovalutato, ed è la formazione di nuclei di potere di straordinario peso all’interno delle dinamiche reali dello Stato reale (all’interno della cosiddetta funzione pubblica).

Una pletora di direttori generali in prima, in seconda e in terza, di dirigenti generali, di dirigenti semplici, di ispettori e viceispettori nonchè di impiegati di tutti gli ordini e gradi, hanno costituito e costituiscono fino ad oggi, una struttura piramidale di potere invincibile ed un baluardo di consenso alle classi dominanti, basata sulla corruttela e sul clientelismo. In buona sostanza, le dinamiche dell’assunzione prima e della scalata alla carriera poi, hanno costituito la materializzazione del potere della borghesia imprenditoriale e di quella parassitaria, stretta attorno al partito o ai partiti che la rappresentano, sia durante il ventennio mussoliniano che nei decenni successivi di democrazia liberale.

Non è certo un caso che l’IRI abbia attraversato indenne catastrofi quali la sconfitta bellica e la mutazione di forma dello stato, operando con crescente virulenza per svariati decenni.

Se leggiamo in questa chiave le cronache degli anni berlusconiani, ci accorgiamo che ancora nel XXI secolo, la struttura di potere dell’industria di stato riesce a mantenersi viva e vegeta, anche se gli elementi che emergono dalle cronache assumono gli aspetti farseschi di tutta la gestione berlusconiana del potere, dalle escort da scambiare con posizioni di dirigenza dentro un prestigioso storico blocco industriale quale Finmeccanica, alle promozioni facili di tutta la base del partito all’interno degli apparati produttivi.

Passiamo all’ENEL, il pilastro della rete infrastrutturale del capitalismo italiano del dopoguerra.

Uno studio delle condizioni che portarono dalle vecchie reti elettriche, del tutto insufficienti allo sviluppo di un capitalismo industriale in grado di competere con i colossi internazionali, alla creazione di un ente perfettamente idoneo alla bisogna, permette di notare come:

  • Le vecchie reti furono acquistate dai vecchi proprietari a prezzi del tutto superiori a quelli di mercato, mettendo quindi, con complesse operazioni finanziarie, a disposizione dei vecchi proprietari, un montante di capitale fresco da investire in settori tecnologicamente ben più avanzati.
  • La presenza di impianti ad alta tecnologia ha permesso una disponibilità di energia del tutto idonea allo sviluppo del capitalismo italiano, in abbinamento alla disponibilità di prodotti energetici petroliferi garantita dall’ ENI – AGIP mineraria.

Un discorso del tutto analogo può essere fatto per le reti di telecomunicazioni, realizzate con enormi impieghi di capitali statali a partire dalle obsolete strutture delle varie TETI, STIPEL, SET, ecc per creare nel ’64 SIP (ex Società Idroelettrica Piemontese), poi nel ’94 ceduta ai gruppi monopolistici privati sotto il nome di Telecom

Ci chiediamo ora la provenienza degli enormi capitali necessari per operazioni dl genere e che certamente non potevano provenire dalla cosiddetta fiscalità generale.

Il meccanismo messo in atto è una vecchia pratica che in questa fase ha raggiunto vertici mai visti nella storia: quella dell’indebitamento di Stato realizzata tramite la emissione di titoli di stato.

Con questa pratica si raggiunge un duplice obbiettivo: con le cedole diffuse nei più vari strati sociali, si distribuiscono capitali che oggi si direbbero di fidelizzazione:

a) coinvolgendo anche la piccola borghesia nell’arricchimento finanziario con l’erogazione di interessi che raggiunsero valori del 18-20% annui.

b) sopratutto permettendo a gruppi di capitalismo internazionale puramente finanziario-parassitario di valorizzare in modo rapido, indolore e a basso rischio la loro base finanziaria.

Naturalmente la pratica del progressivo indebitamento di stato non poteva non avere un prezzo: quello del trasferimento alle generazioni future dell’ enorme fardello delle scoperture di bilancio, che rimbalzavano di anno in anno sui bilanci successivi

Macigno che oggi ci troviamo sulle spalle sotto forma di blocco delle erogazioni sanitarie, scolastiche e pensionistiche (v.Fornero) e delle assunzioni dei giovani in attività produttive.

E’ evidente che una situazione del genere, che se da un lato è strettamente funzionale allo sviluppo generale del capitalismo, non ha dall’altro la possibilità di uno sviluppo autonomo, contraddicendo in apparenza le leggi generali del profitto, che vene spalmato sulla vasta casta dei fruitori di stato che assorbono quote di introiti ben superiori al profitto effettivamente prodotto.

Con queste motivazioni (impossibilità di una gestione economicamente valida del patrimonio statale) sin dagli anni ’80 venne portata avanti in Italia una vasta campagna volta a giustificare il passaggio ai privati delle quote più appetibili dell’apparato produttivo di Stato, passaggio che avvenne in forma compiuta negli anni ’90, parallelamente allo sviluppo della integrazione economica europea.

Naturalmente le motivazioni reali di questa operazioni erano due: oltre alla impossibilità di continuare a sviluppare un indebitamento sempre più abissale, con serio rischio di un fallimento dello Stato, entravano in gioco gli appetiti dei più forti gruppi monopolistici che poterono appropriarsi a prezzi di grande favore dei gangli strategici dell’apparato produttivo italiano, quali l’energia, le telecomunicazioni ed i trasporti.

La politica di sviluppo tumultuoso del capitalismo di Stato in Italia trova il massimo sviluppo con l’appoggio della corrente dorotea della DC e del PSI craxiano.

Il crollo del Craxismo, Mani Pulite, ed il nuovo corso del capitalismo italiano lo mettevano in buona misura da parte, continuando però ad utilizzare i pezzi residuali come bancomat per i gruppi di potere via via succedutisi.

La breve rassegna che abbiamo fatto delle vicende italiane può essere estesa alla gran parte delle nazioni del blocco europeo, con un preciso insegnamento: il mitico Capitalismo di Stato, ben lungi dall’essere una prima tappa per un cammino dello Stato verso un ordinamento socialista, si rivela una tappa fondamentale per puntellare e sviluppare il potere delle classi dominanti, sia nelle forme statuali di democrazia liberale che in quelle apertamente fasciste e reazionarie, che fanno vanto di una presunta apertura socialistizzante e addirittura anticapitalistica.

Laddove invece, in realtà, quello che viene mascherato da serena e proficua coesistenza tra le classi, il famigerato corporativismo, altro non è che la convivenza FORZATA tra sfruttati sempre più emarginati e sfruttatori sempre più potenti.

In queste condizioni il Capitalismo di Stato rappresenta la compiuta sintesi tra i gruppi di potere monopolistico industriale, che cedono ben volentieri i pezzi obsoleti dei loro imperi, e le oligarchie dello stato fascista che, con capitali raccattati come visto prima, si pongono in prima persona come gestori di uno straordinario potere decisionale. Basti vedere al riguardo l’immenso potere raggiunto dall’ industria di stato nella Germania nazista. La I.G. Farben ed ruolo di Himmler ne sono esempi ampiamente chiarificatori.

Da quanto si è visto, il senso vero del Capitalismo di Stato è determinato solo ed esclusivamente dalle classi che detengono il potere in seno allo Stato.

E peraltro, in nazioni i cui popoli invece hanno tentato di liberarsi dal giogo del capitale, il significato del Capitalismo di Stato può essere stato (probabilmente a Cuba lo è), ben diverso, quello di una accumulazione di valore aggiunto utilizzato dallo Stato per investimenti produttivi, volti allo sviluppo della base sociale ed in definitiva allo sviluppo del livello di vita delle masse popolari e segnatamente del proletariato.

Rinviamo ad una analisi che non può che essere estremamente complessa e dettagliata, la situazione della Cina.

Senza però dimenticare che l’emergere di una classe di gestori dell’industria di Stato legata a sempre maggiori privilegi ed a sempre maggiore potere è stata alla base del rovesciamento del socialismo in capitalismo che i recenti fatti dell’Est europeo non possono non ricordarci continuamente.


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